mercoledì 10 dicembre 2014



Cosa pensava della Guerra, chi la guerra l'ha fatta?

Iniziamo con uno dei libri, che hanno saputo meglio esprimere la tragedia della Prima guerra mondiale: Niente di nuovo sul fronte occidentale dello scrittore tedesco Erich Maria Remarque.

L’autore racconta, in prima persona la vita dei soldati sul fronte occidentale. <<Questo libro>>, egli scrive in apertura del suo romanzo, <<non vuole essere né un atto di accusa né una confessione. Esso non è che il tentativo di raffigurare una generazione la quale, anche se sfuggì alle granate, venne distrutta dalla guerra>>.


Remarque era partito volontario per una guerra che riteneva “giusta”, ma dopo l’esperienza dal fronte matura un atteggiamento di condanna della guerra e delle sue atrocità, ma anche di critica nei confronti del modello di educazione tedesco che aveva ingannato un’intera generazione di giovani, mandandoli a morire in una guerra atroce e senza senso.
Nello stesso tempo il romanzo è una testimonianza dei sentimenti di fratellanza, di solidarietà che nascevano tra i soldati nelle trincee e nei campi di battaglia.

Il protagonista e voce narrante è Paul Bäumer, un giovane studente tedesco che, allo scoppio della Prima guerra mondiale, si arruola volontario insieme ad alcuni suoi compagni di scuola e si trova a combattere sul fronte occidentale, che oppone i soldati tedeschi ai soldati francesi.

In uno degli episodi più drammatici del romanzo, il giovane protagonista, nel corso di una spedizione notturna, trova riparo in una buca creata dall’esplosione di una bomba. Ma ecco, improvvisamente, piombare accanto a lui un soldato nemico, un francese. Istintivamente lo colpisce, l’altro si accascia, rantola. Dopo aver agito pazzamente, ritorna in sé e si trova di fronte a questo uomo che sta morendo. Il protagonista è costretto a trascorrere lunghe ore accanto al soldato nemico morente. Guarda i suoi occhi, e non vede solo il nemico, ma un uomo
<<Guardo la mia mano insanguinata, e all'improvviso provo un senso di nausea: prendo un po' di terra e la sfrego sulla mano; così almeno si sporca, e non vedo più il sangue. [...].
La figura dinanzi a me fa un movimento. Trasalisco e involontariamente guardo da quella parte. E i miei occhi rimangono fissi, come se fossero inchiodati. E' un uomo con un paio di baffetti; la testa gli pende da un lato e posa inerte sul braccio a metà piegato. L'altra mano preme il petto, nero di sangue.
[...].Allora apre gli occhi: deve avermi sentito, e mi fissa con un'espressione di indicibile orrore. Il corpo giace immobile, ma negli occhi gli leggo che vuol fuggire, una volontà di fuga così tremenda, che per un attimo mi pare che abbiano la forza di rapir lontano quella povera salma, via, lontano, a centinaia di chilometri, d'un sol balzo. [...]
E' la prima creatura umana che io abbia ucciso con le mie mani, che io possa veder da vicino, e la cui morte sia opera mia. Kat e Kropp e Müller hanno già visto, quando hanno colpito qualcuno in un corpo a corpo, come spesso accade... Ma ogni suo respiro mi strappa il cuore. Questo morente ha per sé le ore, ha un pugnale invisibile col quale mi colpisce: il tempo e il mio pensiero.
Non so che cosa darei perché rimanesse in vita. E' duro starsene qui, doverlo vedere, doverlo udire...>>

Il protagonista cerca di salvarlo, gli slaccia la giubba, tenta invano di medicargli la ferita che sanguina, da una pozzanghera gli porta con le mani dell’acqua melmosa. Pensa a questo uomo, immagina la sua famiglia, la moglie a cui scriveva lettere. L’altro, colpito però gravemente, muore. Il protagonista è colto allora da un sentimento di orrore per ciò che ha commesso, la prima volta che uccide un uomo con le sue mani.

<<Perdonami, compagno, come potevi tu essere mio nemico? Se gettiamo via queste armi e queste uniformi, potresti essere mio fratello, come Kat, come Alberto. Prenditi venti anni della mia vita, compagno, e alzati; prendine di più, perché io non so che cosa ne potrò mai fare». 
Silenzio. Il fronte è tranquillo…[...] Uscire è impossibile.
«Scriverò io a tua moglie» mormoro in fretta al morto «le scriverò, avrà la notizia da me, le dirò tutto quello che dico a te, non deve patire, voglio soccorrerla lei e i tuoi genitori e il tuo bambino.» La sua uniforme è ancora a metà aperta. Il portafogli si trova facilmente. Ma esito a mettervi le mani. C'è dentro il libretto personale. Finché non so il suo nome potrò forse ancora dimenticare, il tempo cancellerà la sua immagine. Ma il suo nome è un chiodo che si pianterà in me e non si potrà strappare mai più. E avrà il potere di rievocare ad ogni istante questa scena: tutto ritornerà e ricomparirà davanti a me.
Indeciso, tengo in mano il portafogli. Mi sfugge dalle dita e si apre; ne cadono alcune fotografie, qualche lettera. Raccatto ogni cosa e vorrei riporre tutto a suo luogo, ma la tensione in cui mi dibatto, l'incertezza della situazione, la fame, il pericolo, queste ore in compagnia del morto mi hanno reso disperato: voglio affrettare lo scioglimento, accrescere la tortura perché abbia fine, così come si sbatte una mano atrocemente dolorante contro un tronco d'albero, accada ciò che vuole.
Sono i ritratti di una donna e d'una bambina, piccole fotografie da dilettante, davanti a un muro vestito d'edera. Poi le lettere. Le traggo dalle buste e tento di leggerle. Capisco ben poco, son difficili da decifrare, e il mio francese è scarso. Ma ogni parola che riesco a intendere è come una fucilata, come una pugnalata nel petto.
Sento che perdo la testa: ma una cosa comprendo bene, che a questa gente non dovrò mai scrivere, come pensavo di fare poc'anzi. E' impossibile. Guardo ancora una volta i due ritratti; non è gente ricca. Potrò mandare loro danaro, senza svelarmi, se un giorno guadagnerò qualcosa. M'aggrappo a questa idea, che è un piccolo punto
Questo morto è legato alla mia vita; perciò, se voglio salvarmi, devo fare tutto per lui, promettergli tutto; faccio voto, ciecamente, che vivrò d'ora innanzi soltanto per lui e per la sua famiglia, e continuo a parlargli con labbra umide, e nel mio profondo c'è la speranza che in questo modo io mi riscatti, e possa forse uscir salvo di qui, e, più in fondo ancora, la piccola riserva mentale che dopo ci sarà tempo e si vedrà. Perciò apro il libretto e leggo lentamente: Gérard Duval, tipografo. Con la matita del morto trascrivo l'indirizzo su una busta, e con improvvisa fretta ripongo tutto il resto nella sua giubba.
Io dunque ho ucciso il tipografo Gérard Duval. Io devo diventar tipografo, penso tutto smarrito, devo diventar tipografo, tipografo...
Dopo mezzogiorno mi sento più calmo. La mia paura era infondata: il nome non mi turba più. Quella febbre è passata. «Compagno» dico al morto, ma con pacatezza: «oggi a te, domani a me. Ma se scampo, compagno, voglio combattere contro ciò che ci ha rovinati entrambi: che a te ha tolto la vita... e a me? La vita anche a me. Te lo prometto, compagno, Non dovrà accadere mai più».

Anche lo stile dell’autore, fatto di frasi brevi con un ritmo affannoso, esprime l’angoscia del protagonista, la disperazione, i segni di pazzia, nel modo in cui uccide il nemico, dati dalla tensione, dal fatto che da un momento all’altro potrebbe morire. Ma il sentimento che resiste, anche in questa situazione disumana, è il senso della solidarietà umana che accomuna tutti i soldati indistintamente. Il protagonista si rende conto che chi ha ucciso non era un nemico, ma un uomo come lui: <<prima tu eri per me solo un’idea, una formula di concetti nel mio cervello, che determinava quella risoluzione…Soltanto ora vedo che sei un uomo come me>>.
Solo dopo ci si rende conto dell’insensatezza dei comandi e che gli altri, il nemico, sono <<poveri cani al par di noi>>. Remarque vuole così anche denunciare la propaganda dell’ideologia nazionalistica, di coloro che, ingannando, mandano a morire gli uomini per raggiungere scopi di potere.


<<Ditegli che la guerra per il popolo significa aumento stragrande di miseria, significa fame, significa morte, e null'altro. La guerra è ingiusta, perché è voluta da una minoranza di uomini i quali, profittando della ignoranza della grande massa del popolo, si sono impadroniti di tutte le forze per poter soggiogare, comandare e massacrare; che chi fa la guerra è il popolo, i lavoratori, loro che hanno le mani callose e che sono questi che muoiono, sono essi i sacrificati, mentre gli altri, i ricchi, riescono a mettersi al sicuro.>>

Così veniva spiegata la guerra da un soldato italiano 21enne  in una lettera scritta al padre il 14 agosto 1917. La lettera venne censurata (una delle tante raccolte nel libro di E. Forcella e A. Monticone "Plotone di esecuzione", Laterza) e il soldato condannato a 1 anno e 10 mesi di reclusione militare per insubordinazione e lettera denigratoria.





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