lunedì 22 dicembre 2014

Sono una creatura
Giuseppe Ungaretti

Come questa pietra
Del S.Michele
Così fredda
Così dura
Così prosciugata
Così refrattaria
Così totalmente disanimata
Come questa pietra
È il mio pianto
Che non si vede

La morte
Si sconta
Vivendo.




Commento alla poesia:

La lirica, composta il 5 agosto 1916 nei pressi di s. Michele del Carso è generata da una sofferenza, che diventa nel corso dei versi condizione universale di ogni creatura vivente.

Il titolo, in apparente contrasto con la poesia, serve a far capire il messaggio positivo contenuto, ovvero l’umanità del poeta, infatti il dolore che prova interiormente gli impedisce di piangere e si deposita nell’animo come una pietra.
Questa immagine viene usata per comunicare la sofferenza e la durezza della vita.
Lo scavo linguistico compiuto da Ungaretti sommato all’assenza di punteggiatura valorizza ogni singola parola della poesia.

Nella prima strofa il poeta descrive il monte S. Michele del Carso, attraverso questa descrizione introduce una lunga similitudine in cui i termini di paragone sono se stesso e il monte che è freddo, la sua terra è arida e dura, senza anima; così è anche l’anima del poeta, impietrita dal dolore e svuotata dalla vita stessa.
È presente un’anafora introdotta dal termine “così” che dà alla similitudine un effetto di martellante ripetizione attraverso il quale il poeta scandisce l’esperienza di un dolore profondo, il suo cuore resterà sempre freddo, così come il monte.
Riesce a creare una forma di climax, descrive il monte con un crescendo di intensità, inizia con l’elencare le caratteristiche meno drammatiche fino ad arrivare a descriverlo come disanimato.

La seconda strofa è composta da un novenario, ovvero 9 sillabe; spezzando il novenario in 3 versi il poeta realizza una sintesi espressiva che valorizza i due termini antitetici: la vita e la morte.
Il tema della morte viene inteso come “traguardo”, ovvero il prezzo che l’uomo deve pagare per raggiungere una morte liberatrice dalla sofferenza della vita, in questo caso provocata dalle tragiche esperienze dei fronti.
Ciò è in netta contrapposizione con la concezione reale di vita e morte poiché ne viene invertito il rapporto: è la morte che assume un significato positivo di fronte alla vita e non viceversa.

Nella prima strofa viene usata una forma verbale per parlare unicamente di sé, dei propri sentimenti; nella seconda strofa, invece,la riflessione del poeta si amplia fino ad assumere valore universale.




-Sabrina e Sahana.
Veglia


Veglia, scritta da Ungaretti il 23 dicembre 1915 sulla Cima Quattro del monte San Martino del Carso, è considerata una delle più intense poesie della raccolta “L’Allegria” (1931) a livello espressionistico, grazie alla scelta lessicale adottata dal poeta.

Struttura:
E’ formata da versi liberi di vario ritmo raggruppati in due strofe di diversa lunghezza; manca la punteggiatura.
Il poeta cerca di esprimersi con parole semplici ed immagini nitide.
L’elemento fonico di rilievo è la presenza della consonante “t”, spesso collegata alla vovale “a”, che impone una lettura secca e scandita.
Il metro è ricco di richiami fonici, rime ed assonanze non regolate.

Tema della poesia:
Questa poesia è frutto di un’esperienza realmente vissuta dal poeta nel periodo della Grande Guerra.
Il poeta passa una notte in trincea accanto ad un compagno morto, dal volto sfigurato e le mani livide e gonfie.
Ungaretti sceglie di rovesciare la drammaticità della scena compiendo un immenso atto vitale nel verso 12-13, nel quale scrive: “Ho scritto lettere piene d’amore”.
L’autore non vuole comunicare la sua resa al dolore, bensì il suo bisogno d’armonia con l’ultima strofa, la quale recita: “Non sono mai stato tanto attaccato alla vita”.
Anche nella sperimentazione della violenza e della morte, egli sente rivelarsi dentro sé nuovi sentimenti legati all’amore.

Commento:
Una situazione del genere, seppure in forme diverse, si può presentare nella vita di tutti: una sciagura può modificare il nostro modo di essere e, forse, farci apprezzare al meglio la vita. Può anche accadere il contrario, cioè che le disgrazie sfiorino, senza scalfire le nostre convinzioni. Non tutti abbiamo la sensibilità di un poeta.

Melissa e Andrea

mercoledì 17 dicembre 2014

Commento alla poesia “Fratelli”

La poesia descrive una scena molto breve: la domanda che un soldato rivolge ai propri compagni.
È particolare la mancanza di punteggiatura escluso il punto interrogativo di cui non si potrebbe fare a meno.
Abbiamo versi brevi e il numero di essi nelle strofe non è regolare. Le rime sono assenti, anche perché l’opera non le richiede affatto, sono bastate le parole a renderla così orecchiabile.
Nelle poesie di guerra di Ungaretti colpisce molto la data poiché penso sia proprio questo particolare che fa sembrare “fratelli” più una testimonianza che una lirica, in quanto al termine si ha l’impressione di aver assistito realmente alla scena.
La parola “fratelli”, nella seconda e terza strofa, pronunciata con tremore è richiamata tramite una metafora, è foglia appena nata per esprimere la fragilità dell’esistenza umana.
La poesia trasmette un senso di angoscia, ma anche il senso di solidarietà nei confronti dei soldati; insomma, è una di quelle cose che ci rendono consapevoli di che cos’è realmente la guerra e le sofferenze che essa porta. La parola “fratelli” ridà così la speranza che anche in guerra possa rinascere quella solidarietà umana che sembra perduta.
Quella di Ungaretti mi appare come una testimonianza, nella quale i soldati al solo suono della parola “fratelli” si sentono confortati (chissà, - immagino - forse sconvolti dalla bontà che c’è nell’essere chiamati in tale modo).
In conclusione si tratta di una poesia fatta di parole semplici, ma in grado di entrare dentro di noi e farci sentire pieni di un qualcosa che non siamo in grado di descrivere. Penso sia proprio di Ungaretti questa straordinaria capacità di esprimersi in poche righe.

Lorena

Commento alla poesia “Fratelli”

La poesia descrive una scena breve ovvero la domanda rivolta ai soldati che nella notte stanno passando accanto alla postazione, da parte di chi è di guardia durante la notte: con il buio non è possibile distinguere i tratti di un volto e soprattutto il colore di una divisa, quindi l’appartenenza ad un esercito.
Il poeta in questi pochi versi esprime un significato profondo, racchiude nella parola “fratelli” la fragilità della vita e il senso di fratellanza che accomuna i soldati di entrambi i fronti, in quanto tutti sono persone con una vita ed una famiglia, persone che ogni giorno rischiano la morte.
Fondamentale e di grande rilievo è la parola Fratelli con cui Ungaretti termina la poesia, parola che lascia un grande senso di angoscia e che fa riflettere. Riflettere sulle atrocità della guerra, riflettere sulle migliaia di morti che ha causato, riflettere sulla fragilità dell’esistenza umana.
In questa poesia è presente una metafora, ovvero un paragone privo di nessi logici di raccordo. Il poeta infatti lega la parola “fratelli” pronunciata in modo insicuro e con tremore, con la foglia appena nata che racchiude fragilità e debolezza.
La poesia è molto semplice nel lessico, ma racchiude un significato profondo che Ungaretti riesce ad esprimere in così poche righe.

Vanessa

martedì 16 dicembre 2014

Così scriveva Hemingway



Nella prefazione ad  Addio alle Armi Ernest Hemingway presenta non  la storia contenuta nel romanzo, ma la storia dell'elaborazione del suo romanzo: le esperienze che ha vissuto nel periodo durante il quale il libro è stato scritto (dalla morte suicida del padre alla nascita del suo secondo figlio), i luoghi che ha attraversato mentre lo scriveva, lo controllava, e lo riscriveva, poiché la prima stesura, terminata in sei settimane, non lo soddisfava, fino alla pubblicazione del libro nel giorno del crollo della borsa di Wall Street.

Nella parte finale della prefazione si sente vivida la sua determinazione di condanna della  guerra, che continua a imperversare anche ai giorni nostri, alimentando il mercato delle armi e finanziando i grandi “Signori della Guerra”.

Le guerre << […] sono fatte, provocate e iniziate da precise rivalità economiche e da maiali che salgono a profittarne. Sono persuaso che tutta la gente che sorge a profittare della guerra e aiuta a provocarla dovrebbe essere fucilata il giorno stesso che cominciano a farlo da rappresentanti accreditati dei leali cittadini che la combatteranno.
L’autore di questo libro sarebbe molto lieto di incaricarsi di questa fucilazione, se fosse legalmente delegato da coloro che combatteranno , e di badare a che venga eseguita con tutta l’umanità e la correttezza possibile e badare che a tutti venga data degna sepoltura. […]”>>

Hemingway conclude la prefazione con una quasi sentenza: <<Così ecco il libro dopo quasi vent’anni e questa è l’introduzione.>>

mercoledì 10 dicembre 2014



Cosa pensava della Guerra, chi la guerra l'ha fatta?

Iniziamo con uno dei libri, che hanno saputo meglio esprimere la tragedia della Prima guerra mondiale: Niente di nuovo sul fronte occidentale dello scrittore tedesco Erich Maria Remarque.

L’autore racconta, in prima persona la vita dei soldati sul fronte occidentale. <<Questo libro>>, egli scrive in apertura del suo romanzo, <<non vuole essere né un atto di accusa né una confessione. Esso non è che il tentativo di raffigurare una generazione la quale, anche se sfuggì alle granate, venne distrutta dalla guerra>>.


Remarque era partito volontario per una guerra che riteneva “giusta”, ma dopo l’esperienza dal fronte matura un atteggiamento di condanna della guerra e delle sue atrocità, ma anche di critica nei confronti del modello di educazione tedesco che aveva ingannato un’intera generazione di giovani, mandandoli a morire in una guerra atroce e senza senso.
Nello stesso tempo il romanzo è una testimonianza dei sentimenti di fratellanza, di solidarietà che nascevano tra i soldati nelle trincee e nei campi di battaglia.

Il protagonista e voce narrante è Paul Bäumer, un giovane studente tedesco che, allo scoppio della Prima guerra mondiale, si arruola volontario insieme ad alcuni suoi compagni di scuola e si trova a combattere sul fronte occidentale, che oppone i soldati tedeschi ai soldati francesi.

In uno degli episodi più drammatici del romanzo, il giovane protagonista, nel corso di una spedizione notturna, trova riparo in una buca creata dall’esplosione di una bomba. Ma ecco, improvvisamente, piombare accanto a lui un soldato nemico, un francese. Istintivamente lo colpisce, l’altro si accascia, rantola. Dopo aver agito pazzamente, ritorna in sé e si trova di fronte a questo uomo che sta morendo. Il protagonista è costretto a trascorrere lunghe ore accanto al soldato nemico morente. Guarda i suoi occhi, e non vede solo il nemico, ma un uomo
<<Guardo la mia mano insanguinata, e all'improvviso provo un senso di nausea: prendo un po' di terra e la sfrego sulla mano; così almeno si sporca, e non vedo più il sangue. [...].
La figura dinanzi a me fa un movimento. Trasalisco e involontariamente guardo da quella parte. E i miei occhi rimangono fissi, come se fossero inchiodati. E' un uomo con un paio di baffetti; la testa gli pende da un lato e posa inerte sul braccio a metà piegato. L'altra mano preme il petto, nero di sangue.
[...].Allora apre gli occhi: deve avermi sentito, e mi fissa con un'espressione di indicibile orrore. Il corpo giace immobile, ma negli occhi gli leggo che vuol fuggire, una volontà di fuga così tremenda, che per un attimo mi pare che abbiano la forza di rapir lontano quella povera salma, via, lontano, a centinaia di chilometri, d'un sol balzo. [...]
E' la prima creatura umana che io abbia ucciso con le mie mani, che io possa veder da vicino, e la cui morte sia opera mia. Kat e Kropp e Müller hanno già visto, quando hanno colpito qualcuno in un corpo a corpo, come spesso accade... Ma ogni suo respiro mi strappa il cuore. Questo morente ha per sé le ore, ha un pugnale invisibile col quale mi colpisce: il tempo e il mio pensiero.
Non so che cosa darei perché rimanesse in vita. E' duro starsene qui, doverlo vedere, doverlo udire...>>

Il protagonista cerca di salvarlo, gli slaccia la giubba, tenta invano di medicargli la ferita che sanguina, da una pozzanghera gli porta con le mani dell’acqua melmosa. Pensa a questo uomo, immagina la sua famiglia, la moglie a cui scriveva lettere. L’altro, colpito però gravemente, muore. Il protagonista è colto allora da un sentimento di orrore per ciò che ha commesso, la prima volta che uccide un uomo con le sue mani.

<<Perdonami, compagno, come potevi tu essere mio nemico? Se gettiamo via queste armi e queste uniformi, potresti essere mio fratello, come Kat, come Alberto. Prenditi venti anni della mia vita, compagno, e alzati; prendine di più, perché io non so che cosa ne potrò mai fare». 
Silenzio. Il fronte è tranquillo…[...] Uscire è impossibile.
«Scriverò io a tua moglie» mormoro in fretta al morto «le scriverò, avrà la notizia da me, le dirò tutto quello che dico a te, non deve patire, voglio soccorrerla lei e i tuoi genitori e il tuo bambino.» La sua uniforme è ancora a metà aperta. Il portafogli si trova facilmente. Ma esito a mettervi le mani. C'è dentro il libretto personale. Finché non so il suo nome potrò forse ancora dimenticare, il tempo cancellerà la sua immagine. Ma il suo nome è un chiodo che si pianterà in me e non si potrà strappare mai più. E avrà il potere di rievocare ad ogni istante questa scena: tutto ritornerà e ricomparirà davanti a me.
Indeciso, tengo in mano il portafogli. Mi sfugge dalle dita e si apre; ne cadono alcune fotografie, qualche lettera. Raccatto ogni cosa e vorrei riporre tutto a suo luogo, ma la tensione in cui mi dibatto, l'incertezza della situazione, la fame, il pericolo, queste ore in compagnia del morto mi hanno reso disperato: voglio affrettare lo scioglimento, accrescere la tortura perché abbia fine, così come si sbatte una mano atrocemente dolorante contro un tronco d'albero, accada ciò che vuole.
Sono i ritratti di una donna e d'una bambina, piccole fotografie da dilettante, davanti a un muro vestito d'edera. Poi le lettere. Le traggo dalle buste e tento di leggerle. Capisco ben poco, son difficili da decifrare, e il mio francese è scarso. Ma ogni parola che riesco a intendere è come una fucilata, come una pugnalata nel petto.
Sento che perdo la testa: ma una cosa comprendo bene, che a questa gente non dovrò mai scrivere, come pensavo di fare poc'anzi. E' impossibile. Guardo ancora una volta i due ritratti; non è gente ricca. Potrò mandare loro danaro, senza svelarmi, se un giorno guadagnerò qualcosa. M'aggrappo a questa idea, che è un piccolo punto
Questo morto è legato alla mia vita; perciò, se voglio salvarmi, devo fare tutto per lui, promettergli tutto; faccio voto, ciecamente, che vivrò d'ora innanzi soltanto per lui e per la sua famiglia, e continuo a parlargli con labbra umide, e nel mio profondo c'è la speranza che in questo modo io mi riscatti, e possa forse uscir salvo di qui, e, più in fondo ancora, la piccola riserva mentale che dopo ci sarà tempo e si vedrà. Perciò apro il libretto e leggo lentamente: Gérard Duval, tipografo. Con la matita del morto trascrivo l'indirizzo su una busta, e con improvvisa fretta ripongo tutto il resto nella sua giubba.
Io dunque ho ucciso il tipografo Gérard Duval. Io devo diventar tipografo, penso tutto smarrito, devo diventar tipografo, tipografo...
Dopo mezzogiorno mi sento più calmo. La mia paura era infondata: il nome non mi turba più. Quella febbre è passata. «Compagno» dico al morto, ma con pacatezza: «oggi a te, domani a me. Ma se scampo, compagno, voglio combattere contro ciò che ci ha rovinati entrambi: che a te ha tolto la vita... e a me? La vita anche a me. Te lo prometto, compagno, Non dovrà accadere mai più».

Anche lo stile dell’autore, fatto di frasi brevi con un ritmo affannoso, esprime l’angoscia del protagonista, la disperazione, i segni di pazzia, nel modo in cui uccide il nemico, dati dalla tensione, dal fatto che da un momento all’altro potrebbe morire. Ma il sentimento che resiste, anche in questa situazione disumana, è il senso della solidarietà umana che accomuna tutti i soldati indistintamente. Il protagonista si rende conto che chi ha ucciso non era un nemico, ma un uomo come lui: <<prima tu eri per me solo un’idea, una formula di concetti nel mio cervello, che determinava quella risoluzione…Soltanto ora vedo che sei un uomo come me>>.
Solo dopo ci si rende conto dell’insensatezza dei comandi e che gli altri, il nemico, sono <<poveri cani al par di noi>>. Remarque vuole così anche denunciare la propaganda dell’ideologia nazionalistica, di coloro che, ingannando, mandano a morire gli uomini per raggiungere scopi di potere.


<<Ditegli che la guerra per il popolo significa aumento stragrande di miseria, significa fame, significa morte, e null'altro. La guerra è ingiusta, perché è voluta da una minoranza di uomini i quali, profittando della ignoranza della grande massa del popolo, si sono impadroniti di tutte le forze per poter soggiogare, comandare e massacrare; che chi fa la guerra è il popolo, i lavoratori, loro che hanno le mani callose e che sono questi che muoiono, sono essi i sacrificati, mentre gli altri, i ricchi, riescono a mettersi al sicuro.>>

Così veniva spiegata la guerra da un soldato italiano 21enne  in una lettera scritta al padre il 14 agosto 1917. La lettera venne censurata (una delle tante raccolte nel libro di E. Forcella e A. Monticone "Plotone di esecuzione", Laterza) e il soldato condannato a 1 anno e 10 mesi di reclusione militare per insubordinazione e lettera denigratoria.





In questo blog le ragazze e i ragazzi di una classe II dell'ISISS "F. Da Collo" di Conegliano proveranno a raccogliere e commentare le
scritture degli uomini e delle donne che hanno raccontato, talvolta
senza sapere di fare Letteratura o Storia, la Grande Guerra, dovunque
è accaduta.