mercoledì 7 gennaio 2015

Voce di vedetta morta di Clemente Rebora

C'è un corpo in poltiglia

Con crespe di faccia, affiorante

Sul lezzo dell'aria sbranata.

Frode la terra.

Forsennato non piango:

Affar di chi può, e del fango.

Però se ritorni

Tu uomo, di guerra

A chi ignora non dire;

Non dire la cosa, ove l'uomo

E la vita s'intendono ancora.

Ma afferra la donna

Una notte, dopo un gorgo di baci,

Se tornare potrai;

Sòffiale che nulla del mondo

Redimerà ciò ch'è perso

Di noi, i putrefatti di qui;

Stringile il cuore a strozzarla:

E se t'ama, lo capirai nella vita

Più tardi, o giammai.

Questo testo fa parte di una raccolta di poesie che Rebora ha dedicato al tema della guerra, in

quanto egli stesso ne fu partecipe.

Egli descrive un corpo talmente putrefatto da non essere in grado di riconoscerne il volto, il quale

emerge sulla puzza dell'aria fatta a pezzi dalle esplosioni. Nonostante questa atrocità, il poeta

infuriato non riesce a piangere tanto forte è il dolore.

Si raccomanda, con coloro che riusciranno a fuggire dalla guerra, di non turbare amici e familiari

con questa assurda realtà, se non la propria donna dopo una notte di tenerezza e passione: unico

momento capace di accettare questa simile esperienza. Così, se dopo questa rivelazione ella rimarrà

al tuo fianco, capirai che ti ama davvero.

Il linguaggio che utilizza il poeta è più complesso e ricercato rispetto a quello di Ungaretti . La

composizione è in versi liberi con molti metri tradizionali (quinari, novenari, endecasillabi). Nelle

prime tre righe è presente la sinestesia accompagnata dalla consonanza della lettera C, nel quinto e

sesto verso troviamo una rima baciata e negli ultimi due versi della prima strofa l'anafora dove

viene ripetuto "non dire". Nella seconda strofa sono presenti due enjambement: "ove l'uomo e la

vita s'intendono ancora" e "redimerà ciò ch'è perso di noi".

Questo testo esprime la sofferenza dovuta alla violenza della guerra, che ha distrutto un'intera

generazione, non soltanto fisicamente ma soprattutto interiormente. Una generazione che non avrà

più indietro quello che ha perso, ma che l'unica cosa per cui può ancora lottare è che le generazioni

prossime costruiscano senza guardare indietro il loro domani.

Il messaggio che il poeta vuole trasmettere è un accorato invito ai superstiti della guerra di non

turbare con i loro ricordi e racconti i giovani con i quali condividere amore e un futuro diverso.

Marella

martedì 6 gennaio 2015

TREGUA DI NATALE del 1914



Per "tregua di Natale" si intende una serie di "cessate il fuoco" non ufficiali”, avvenuti nei giorni attorno al Natale del 1914 in varie zone del fronte occidentale durante la Prima guerra mondiale.

Nella settimana precedente il Natale soldati tedeschi e britannici schierati sui lati opposti del fronte occidentale si scambiarono auguri e canzoni dalle trincee e, in alcuni casi, dei soldati attraversarono la "terra di nessuno" per portare doni ai soldati nemici.

Nel giorno della vigilia e in quello del Natale un gran numero di soldati tedeschi e britannici e francesi lasciarono spontaneamente le trincee e si scambiarono cibo e souvenir, celebrarono cerimonie religiose di sepoltura dei caduti e perfino furono organizzate improvvisate partite di calcio.

Nella maggior parte dei casi la tregua durò solo il giorno di Natale, ma in alcuni casi si prolungò fino alla notte di Capodanno.

La tregua non fu né un fatto organizzato, né universalmente diffuso: in diverse zone del fronte occidentale i combattimenti proseguirono per tutto il giorno di Natale, mentre in altre situazioni ci furono tregue momentanee solamente per seppellire i cadaveri.

La tregua fu giudicata molto negativamente dagli alti comandi militari e fu severamente proibita per il futuro: nel 1915 alcuni soldati organizzarono una nuova tregua per il giorno di Natale che però non raggiunse il grado di fraternizzazione di quella del 1914; per il Natale del 1916 nessuna tregua fu organizzata.

Gli eventi della tregua del 1914 furono riportati il 31.12.1914 dal New York Times, mentre i giornali britannici riportarono alcuni fatti a inizio gennaio 1915, invece in Francia e in Germania la forte censura impedì la pubblicazione di questo evento, solo nel gennaio 1915 in Francia furono pubblicate dichiarazioni ufficiali sulla tregua del 1914 tese a minimizzarne la portata e la diffusione.


Alberto

    

Natale

Giuseppe Ungaretti

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare

Napoli, 26 dicembre 1916


COMMENTO:

Questa poesia è stata composta nel Natale del 1916 mentre Ungaretti si trovava a Napoli, a casa di amici durante la licenza.

La poesia fa parte della raccolta "L'Allegria di Naufragi" del 1919, diventata nel 1931 "l'Allegria".

I versi sono liberi, il ritmo è spezzato e si armonizza al contenuto, dando l'impressione di un 
singhiozzo.

La lirica è dominata dal sentimento di sofferenza e infinita stanchezza di Ungaretti che è scosso dalle esperienze di guerra, i cui ricordi lo accompagnano in città, dove gli è impossibile riprendere una vita normale.

Il poeta è stanco, non solo per le esperienze del fronte, ma è anche stanco per la "fatica di vivere" e preferisce essere lasciato solo, "come una cosa posata in un angolo e dimenticata" a guardare il fuoco buono e rassicurante, in contrapposizione al freddo mortale della trincea.

Analizzando la poesia, ho cercato di capire lo stato d'animo di Ungaretti, il quale, nonostante sia in licenza per le festività natalizie a casa di amici, è sofferente e vuole restare solo, stanco anche di vivere, perseguitato dal ricordo della trincea.

Con questa lirica Ungaretti rivela quanto sia difficile capire cosa sia la guerra se non la si prova di persona, tanto che rinuncia a "tuffarsi in un gomitolo di strade", in mezzo alla gente che non può capirlo, mostra inoltre come la guerra segni in maniera indelebile i soldati, il cui ricordo li "perseguita" anche fuori dalla trincea.


Alberto

venerdì 2 gennaio 2015




La morte silenziosa dell'amico

Paul assiste impotente alla morte in ospedale dell’amico d’infanzia Franz Kemmerich, al quale è stata amputata una gamba. Cerca di fargli coraggio, ma inutilmente. Franz è consapevole che sta per morire, e piange.
Le lacrime di questo ragazzo di diciannove anni sul letto di morte, più di ogni altro ci penetrano nel profondo ci gridano l’insensatezza della guerra.

Eccomi seduto al capezzale di Kemmerich; è sempre più giù, poveretto. Intorno a noi c'è molta confusione. E' arrivato un convoglio di feriti, si stanno scegliendo i trasportabili. Il medico passa davanti al letto di Kemmerich, ma non si ferma neppure a guardarlo. «Sarà per la prossima volta, Cecco» gli dico. Egli si solleva un po' sui gomiti: «Sai, mi hanno amputato».
Dunque ora lo sa. Io gli accenno di sì, col capo, e soggiungo: «Sii contento di essertela cavata così». Ma lui tace. Io continuo: «Potevano esser tutt'e due le gambe, Cecco. Wegeler ha perduto il braccio destro: è molto peggio. Così te ne vai a casa».
Mi guarda in faccia: «Credi?».
«Ma naturale.»
E lui di nuovo: «Credi?».
«Ma certo, Cecco. Non hai bisogno che di rimetterti un poco dall'operazione.»
Mi fa cenno di avvicinarmi. Mi chino sopra di lui, e lo sento mormorare: «Io non lo credo».
«Non dir sciocchezze, Cecco; te ne convincerai tu stesso, fra qualche giorno. Che cos'è poi, una gamba amputata? Qui si aggiustano ben altri guai.»
Egli solleva una mano «Guarda un po' queste dita». «Effetto dell'operazione. Devi mangiare, vedrai che ti rimetti subito. Il vitto è buono, almeno?»
Mi indica una scodella, ancora mezza piena. Io faccio finta d'arrabbiarmi: «Cecco, devi mangiare. Mangiare è la cosa principale. Il vitto è ottimo, qui».
Ma lui rifiuta, e dopo una pausa dice lentamente: «Volevo diventare ispettore forestale, una volta». «Puoi esserlo ancora» lo consolo io. «Si fanno oggi delle protesi straordinarie, non ti accorgi neppure che ti manca qualche cosa. Attaccano l'arto artificiale ai muscoli direttamente. Nella protesi delle mani si possono persino muovere le dita, lavorare, magari scrivere. E poi ne inventeranno ancora...»
Egli rimane un pezzo in silenzio, poi dice: «Puoi portare a Müller i miei stivali».
Accenno di sì, e penso che cosa potrei dire ancora per rianimarlo un poco. Le sue labbra sono slavate, la bocca è diventata più grande, i denti sporgono in fuori, come di gesso. La carne se ne va, la fronte sembra più ampia, gli zigomi si disegnano più forti. Lo scheletro affiora a poco a poco, gli occhi si infossano. Fra un paio d'ore sarà finita.
Non è il primo che vedo in questo stato. Ma siamo cresciuti insieme, e ciò conta pure qualcosa. Ho copiato i suoi compiti: a scuola portava quasi sempre un abito scuro, a cintura, logorato ai gomiti. Era il solo fra noi che sapesse fare il salto mortale alla sbarra fissa; quando lo eseguiva, i capelli, che aveva come di seta, gli volavano sul viso. Kantorek perciò ne andava fiero. Ma non poteva sopportare sigaretta: aveva la pelle bianchissima, e qualcosa di femmineo in tutta la persona.
Mi guardo gli scarponi, grandi e goffi, in cui entrano con grosse pieghe i pantaloni; in quei tubi si ha l'aspetto forte e robusto: ma quando al bagno ci spogliamo, riveliamo ad un tratto la gracilità delle gambe e delle spalle. Allora non siamo più soldati, ma quasi ancora fanciulli; nessuno ci crederebbe capaci di portare lo zaino. E' un curioso momento, quando siamo nudi; ritorniamo borghesi e per un istante ci par quasi di esserlo.
Francesco Kemmerich al bagno pareva piccolo e sottile, come un fanciullo. Ora è lì, disteso; perché poi? Vorrei far sfilare tutto il mondo davanti a questo letto, e dire: «Questi è Franz Kemmerich, diciannove anni e mezzo; non vuol morire. Non lasciatelo morire!».
Le idee mi si confondono. Quest'aria che puzza di creolina e di bruciato ingorga i polmoni, è un'aria
pigra e densa, che soffoca.
Si fa buio. Il volto di Kemmerich si sbianca, spicca sui cuscini con tale pallore che pare risplenda. La bocca si muove adagio. Mi avvicino e lo sento mormorare: «Se trovate il mio orologio, mandatelo a casa».
Non contraddico più: non c'è più scopo. Persuaderlo ormai è impossibile. La mia impotenza mi affligge; quella fronte dalle tempie incavate, quella bocca tutta denti, quel naso sottile! E la povera grassona che piange a casa, a cui bisognerà pure scrivere: almeno avessi già spedito la lettera! Infermieri vanno e vengono intorno, con boccette e con secchie. Uno si avvicina, getta uno sguardo a Kemmerich e si allontana; probabilmente aspetta, avrebbe bisogno di utilizzare quel letto.
Io mi stringo al mio povero Cecco e parlo, come se con ciò io potessi salvare: «Forse andrai al convalescenziario sul Klosterberg, Franz, sai, in mezzo ai villini. Dalla finestra allora puoi vedere tutta la campagna, fino ai due alberi all'orizzonte. E' la stagione più bella ora, quando il grano matura; verso sera, sotto il sole, i campi sembrano di madreperla. E il viale dei pioppi lungo il fiume, dove andavamo a pescare, ricordi? Potrai di nuovo farti un acquario, e allevare i pesci, potrai uscire senza domandare permesso a nessuno, e perfino suonare il pianoforte, se vuoi».
Mi chino sul suo volto, ora tutto in ombra. Respira ancora, piano. Ha la faccia bagnata, piange. Bel lavoro che ho combinato, con le mie stupide ciarle!
«Ma Cecco!» Gli abbraccio le spalle e metto la mia testa accanto alla sua. «Vuoi dormire, ora?»
Non risponde: le lagrime gli colano sulle guance. Vorrei asciugarle, ma il mio fazzoletto è troppo sporco.
Passa un'ora; sospeso al suo volto ne spio ogni espressione, se per caso volesse dire ancora qualcosa. Oh se aprisse quella bocca, a gridare! Ma no, non fa che piangere, con la testa piegata da un lato. Non parla della sua mamma, dei fratelli, non dice nulla; ha lasciato già dietro di sé tutto ciò: oramai è solo, solo con la sua piccola vita di diciannove anni; e piange perché essa lo abbandona.
Questo è il più disperato e più grave congedo, a cui abbia assistito: quantunque sia stato terribile anche per Tiedjen; un colosso, forte come un orso, che urlava invocando la madre e terrorizzato, gli occhi accasciò all'improvviso.
Ed ecco che Kemmerich comincia a rantolare.
Salto in piedi, brancolo fuori della sala, chiamando: «Dov'è il medico? Dov'è il medico?». Quando vedo la tunica bianca lo afferro: «Venga presto, Franz Kemmerich muore».
Lui si libera con uno strattone e domanda all'infermiere che gli sta accanto: «Che cosa dice?». Quello risponde: «Letto 26; amputazione del femore».
«Che diamine volete che ci faccia» m'investe: «ho amputato cinque gambe oggi»; mi spinge da parte, dice all'infermiere: «Guardate un po' voi» e corre alla sala operatoria.
Io fremo di rabbia, mentre cammino accanto all'infermiere. Egli mi guarda in faccia e dice: «Una operazione dopo l'altra; da stamane alle cinque; roba da pazzi, ti dico; oggi ancora sedici morti; il tuo è il diciassettesimo. Arriveremo certamente a venti...».
Mi sento venir meno, non ne posso più. Non ho più la forza di bestemmiare, a che scopo? Vorrei lasciarmi cadere a terra e non rialzarmi mai più.
Eccoci al letto: Kemmerich è morto. Ha la faccia ancora umida di pianto. Gli occhi sono semiaperti, gialli come vecchi bottoni di corno[1].

La pagina di Remarque non ci parla di un eroe ferito, non lo è neppure per i compagni, ma è la voce straziante di un ragazzo al quale la vita è stata stroncata, una vittima inconsapevole della macchina della guerra.



[1] E. M. Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, Mondadori

giovedì 1 gennaio 2015




Voce di vedetta morta, Clemente Rebora  

da "Poesie varie"


C'è un corpo in poltiglia
Con crespe di faccia, affiorante
Sul lezzo dell'aria sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
Affar di chi può, e del fango.
Però se ritorni
Tu uomo, di guerra
A chi ignora non dire;
Non dire la cosa, ove l'uomo
E la vita s'intendono ancora.
Ma afferra la donna
Una notte, dopo un gorgo di baci,
Se tornare potrai;
Sòffiale che nulla del mondo
Redimerà ciò ch'è perso
Di noi, i putrefatti di qui;
Stringile il cuore a strozzarla:
E se t'ama, lo capirai nella vita
Più tardi, o giammai.


COMMENTO:

Voce di vedetta morta è una poesia tratta dalla collezione delle Poesie varie (1913-1918)
C’è un corpo in putrefazione con la faccia aggrinzita, che emerge sulla puzza dell'aria fatta a pezzi dalle esplosioni. La terra è un inganno. Infuriato non piango: attività di chi può permettersi questa debolezza e del fango. Perciò tu, uomo, se ritorni a casa vivo non dire di questa realtà a chi non sa della guerra; non dire di questa situazione là dove l'uomo e la vita si capiscono ancora. Ma invece in una notte, dopo un gran numero di baci, afferra la tua donna, se potrai tornare salvo; sussurrale che nessuna cosa del mondo riscatterà ciò che è stato distrutto di noi che abbiamo combattuto, i putrefatti di qui del fronte bellico; stringile il cuore fino a soffocarla e se lei ti ama, lo capirai più tardi nella vita o mai più. SEMBRA CHE LA VEDETTA PARLI (non dire la cosa). Il morto sembra lanciare un messaggio forte e chiaro: vivi come se non ci fosse un domani.

Leggendo questi versi, non si può rimanere indifferenti al mordace espressionismo, al vorticoso susseguirsi di parole accuratamente scelte per creare un ritmo che trascina e coinvolge.

Questa poesia affronta un particolare episodio in una trincea sul monte Podgora durante la Grange Guerra, dove un sottotenente giace accanto al corpo inanimato del compagno d’armi, e guardando un cadavere pensa alla vita. Il poeta parla assumendo il punto di vista del morto e questa prospettiva porta al massimo la tensione verso un valore della vita che sia sufficiente a riscattare la morte e la sofferenza dei soldati,; ma poiché tale valore non può essere trovato, o comunque è comprensibile solo in condizioni eccezionali, l'invito è a non confidare questa scoperta sconvolgente a chi non ha fatto un'esperienza simile, perché non capirebbe o ne sarebbe solo turbato. Tale rivelazione potrà essere fatta solo nel momento di massima vitalità, alla donna che si ama, in una notte d'amore, come se ciò costituisca un possibile risarcimento alle sofferenze provate; ma in verità sarà solo la vita nella sua interezza che potrà, forse, dare una risposta - ammesso, di nuovo, che una risposta sia possibile: il messaggio conclusivo è aperto e problematico.




Giulia ed Elsa