venerdì 2 gennaio 2015




La morte silenziosa dell'amico

Paul assiste impotente alla morte in ospedale dell’amico d’infanzia Franz Kemmerich, al quale è stata amputata una gamba. Cerca di fargli coraggio, ma inutilmente. Franz è consapevole che sta per morire, e piange.
Le lacrime di questo ragazzo di diciannove anni sul letto di morte, più di ogni altro ci penetrano nel profondo ci gridano l’insensatezza della guerra.

Eccomi seduto al capezzale di Kemmerich; è sempre più giù, poveretto. Intorno a noi c'è molta confusione. E' arrivato un convoglio di feriti, si stanno scegliendo i trasportabili. Il medico passa davanti al letto di Kemmerich, ma non si ferma neppure a guardarlo. «Sarà per la prossima volta, Cecco» gli dico. Egli si solleva un po' sui gomiti: «Sai, mi hanno amputato».
Dunque ora lo sa. Io gli accenno di sì, col capo, e soggiungo: «Sii contento di essertela cavata così». Ma lui tace. Io continuo: «Potevano esser tutt'e due le gambe, Cecco. Wegeler ha perduto il braccio destro: è molto peggio. Così te ne vai a casa».
Mi guarda in faccia: «Credi?».
«Ma naturale.»
E lui di nuovo: «Credi?».
«Ma certo, Cecco. Non hai bisogno che di rimetterti un poco dall'operazione.»
Mi fa cenno di avvicinarmi. Mi chino sopra di lui, e lo sento mormorare: «Io non lo credo».
«Non dir sciocchezze, Cecco; te ne convincerai tu stesso, fra qualche giorno. Che cos'è poi, una gamba amputata? Qui si aggiustano ben altri guai.»
Egli solleva una mano «Guarda un po' queste dita». «Effetto dell'operazione. Devi mangiare, vedrai che ti rimetti subito. Il vitto è buono, almeno?»
Mi indica una scodella, ancora mezza piena. Io faccio finta d'arrabbiarmi: «Cecco, devi mangiare. Mangiare è la cosa principale. Il vitto è ottimo, qui».
Ma lui rifiuta, e dopo una pausa dice lentamente: «Volevo diventare ispettore forestale, una volta». «Puoi esserlo ancora» lo consolo io. «Si fanno oggi delle protesi straordinarie, non ti accorgi neppure che ti manca qualche cosa. Attaccano l'arto artificiale ai muscoli direttamente. Nella protesi delle mani si possono persino muovere le dita, lavorare, magari scrivere. E poi ne inventeranno ancora...»
Egli rimane un pezzo in silenzio, poi dice: «Puoi portare a Müller i miei stivali».
Accenno di sì, e penso che cosa potrei dire ancora per rianimarlo un poco. Le sue labbra sono slavate, la bocca è diventata più grande, i denti sporgono in fuori, come di gesso. La carne se ne va, la fronte sembra più ampia, gli zigomi si disegnano più forti. Lo scheletro affiora a poco a poco, gli occhi si infossano. Fra un paio d'ore sarà finita.
Non è il primo che vedo in questo stato. Ma siamo cresciuti insieme, e ciò conta pure qualcosa. Ho copiato i suoi compiti: a scuola portava quasi sempre un abito scuro, a cintura, logorato ai gomiti. Era il solo fra noi che sapesse fare il salto mortale alla sbarra fissa; quando lo eseguiva, i capelli, che aveva come di seta, gli volavano sul viso. Kantorek perciò ne andava fiero. Ma non poteva sopportare sigaretta: aveva la pelle bianchissima, e qualcosa di femmineo in tutta la persona.
Mi guardo gli scarponi, grandi e goffi, in cui entrano con grosse pieghe i pantaloni; in quei tubi si ha l'aspetto forte e robusto: ma quando al bagno ci spogliamo, riveliamo ad un tratto la gracilità delle gambe e delle spalle. Allora non siamo più soldati, ma quasi ancora fanciulli; nessuno ci crederebbe capaci di portare lo zaino. E' un curioso momento, quando siamo nudi; ritorniamo borghesi e per un istante ci par quasi di esserlo.
Francesco Kemmerich al bagno pareva piccolo e sottile, come un fanciullo. Ora è lì, disteso; perché poi? Vorrei far sfilare tutto il mondo davanti a questo letto, e dire: «Questi è Franz Kemmerich, diciannove anni e mezzo; non vuol morire. Non lasciatelo morire!».
Le idee mi si confondono. Quest'aria che puzza di creolina e di bruciato ingorga i polmoni, è un'aria
pigra e densa, che soffoca.
Si fa buio. Il volto di Kemmerich si sbianca, spicca sui cuscini con tale pallore che pare risplenda. La bocca si muove adagio. Mi avvicino e lo sento mormorare: «Se trovate il mio orologio, mandatelo a casa».
Non contraddico più: non c'è più scopo. Persuaderlo ormai è impossibile. La mia impotenza mi affligge; quella fronte dalle tempie incavate, quella bocca tutta denti, quel naso sottile! E la povera grassona che piange a casa, a cui bisognerà pure scrivere: almeno avessi già spedito la lettera! Infermieri vanno e vengono intorno, con boccette e con secchie. Uno si avvicina, getta uno sguardo a Kemmerich e si allontana; probabilmente aspetta, avrebbe bisogno di utilizzare quel letto.
Io mi stringo al mio povero Cecco e parlo, come se con ciò io potessi salvare: «Forse andrai al convalescenziario sul Klosterberg, Franz, sai, in mezzo ai villini. Dalla finestra allora puoi vedere tutta la campagna, fino ai due alberi all'orizzonte. E' la stagione più bella ora, quando il grano matura; verso sera, sotto il sole, i campi sembrano di madreperla. E il viale dei pioppi lungo il fiume, dove andavamo a pescare, ricordi? Potrai di nuovo farti un acquario, e allevare i pesci, potrai uscire senza domandare permesso a nessuno, e perfino suonare il pianoforte, se vuoi».
Mi chino sul suo volto, ora tutto in ombra. Respira ancora, piano. Ha la faccia bagnata, piange. Bel lavoro che ho combinato, con le mie stupide ciarle!
«Ma Cecco!» Gli abbraccio le spalle e metto la mia testa accanto alla sua. «Vuoi dormire, ora?»
Non risponde: le lagrime gli colano sulle guance. Vorrei asciugarle, ma il mio fazzoletto è troppo sporco.
Passa un'ora; sospeso al suo volto ne spio ogni espressione, se per caso volesse dire ancora qualcosa. Oh se aprisse quella bocca, a gridare! Ma no, non fa che piangere, con la testa piegata da un lato. Non parla della sua mamma, dei fratelli, non dice nulla; ha lasciato già dietro di sé tutto ciò: oramai è solo, solo con la sua piccola vita di diciannove anni; e piange perché essa lo abbandona.
Questo è il più disperato e più grave congedo, a cui abbia assistito: quantunque sia stato terribile anche per Tiedjen; un colosso, forte come un orso, che urlava invocando la madre e terrorizzato, gli occhi accasciò all'improvviso.
Ed ecco che Kemmerich comincia a rantolare.
Salto in piedi, brancolo fuori della sala, chiamando: «Dov'è il medico? Dov'è il medico?». Quando vedo la tunica bianca lo afferro: «Venga presto, Franz Kemmerich muore».
Lui si libera con uno strattone e domanda all'infermiere che gli sta accanto: «Che cosa dice?». Quello risponde: «Letto 26; amputazione del femore».
«Che diamine volete che ci faccia» m'investe: «ho amputato cinque gambe oggi»; mi spinge da parte, dice all'infermiere: «Guardate un po' voi» e corre alla sala operatoria.
Io fremo di rabbia, mentre cammino accanto all'infermiere. Egli mi guarda in faccia e dice: «Una operazione dopo l'altra; da stamane alle cinque; roba da pazzi, ti dico; oggi ancora sedici morti; il tuo è il diciassettesimo. Arriveremo certamente a venti...».
Mi sento venir meno, non ne posso più. Non ho più la forza di bestemmiare, a che scopo? Vorrei lasciarmi cadere a terra e non rialzarmi mai più.
Eccoci al letto: Kemmerich è morto. Ha la faccia ancora umida di pianto. Gli occhi sono semiaperti, gialli come vecchi bottoni di corno[1].

La pagina di Remarque non ci parla di un eroe ferito, non lo è neppure per i compagni, ma è la voce straziante di un ragazzo al quale la vita è stata stroncata, una vittima inconsapevole della macchina della guerra.



[1] E. M. Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, Mondadori

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